Il tiro di Chiesa ha sbattuto sul petto di D’Ambrosio, sulla sinistra, perciò si potrebbe dedurre che la Var sia stata colpita al cuore. Il rigore inesistente assegnato alla Fiorentina è stato letto da molti come la fine dell’innocenza dell’arbitro elettronico. Per un anno e mezzo, al di là delle varie sbavature e delle interpretazioni discutibili, ci siamo cullati una certezza: le ingiustizie plateali, oggettivamente palesi, tipo la mano di Henry che costò un Mondiale a Trapattoni o la testata di Zidane a Materazzi non sfuggiranno al Var. E invece un colpo di petto, che il mondo intero ha riconosciuto come tale, si è trasformato in fallo da rigore perché una sola persona, l’arbitro, lo ha percepito come colpo di braccio. Ma allora la Var ci lascia nudi come prima. Da qui la fine dell’innocenza e un senso di smarrimento generale. Ma è un sentimento sbagliato. La Var ha fatto bene il suo lavoro, ha sbagliato il signor Abisso da Palermo. Non va perfezionata la macchina, vanno migliorati gli arbitri, che devono adattarsi alla nuova era.
Istintivamente uno può pensare: «Con il grande aiuto della Var, un arbitro può anche essere “meno bravo”, meno attrezzato del passato, quando doveva amministrare la giustizia da solo». Non è vero. Devono essere «bravi» in modo diverso. Come accaduto, per esempio, in Formula 1: un tempo il pilota dimostrava la sua abilità quasi soltanto gestendo il volante, oggi dev’essere «bravo» a sfruttare la raffinata tecnologia di bordo. I piloti sono cambiati e devono cambiare gli arbitri. Oggi può capitare che la Var smentisca per tre volte la tua decisione di campo, l’ultima delle quali al 57’ del secondo tempo. E tutte e tre le decisioni della Var, corrette, danneggiano la squadra di casa. Il nuovo arbitro deve avere la forza, la personalità per correggere i suoi giudizi errati, fossero anche cento, fosse anche il 120’ di recupero. Se scopre invece di avere paura e si sforza di vedere ciò che non c’è per prendere la decisione ambientalmente più comoda e rassicurante, deve riflettere sulla propria vocazione professionale. Come il chirurgo che trema davanti al sangue o il giudice davanti a un’intimidazione.
Un tempo all’arbitro che fischiava e sollevava il braccio, insindacabile come un dio, senza tecnologia in grado di smentirlo in tempo reale, non era richiesta questa forma di coraggio. Un tempo, per un arbitro, la forte personalità era una forma di sopravvivenza nella giungla della partita che non era illuminata dalle telecamere e che doveva governare da solo. All’arbitro moderno si richiede una nuova forma di umiltà: quella che lo aiuta ad accettare le decisioni corrette del Var; l’umiltà che l’esordiente Massimi da Termoli non ha praticato in Samp-Cagliari ignorando l’opportuna correzione del Var sul giallo a Deiola che doveva essere rosso. Arrivato finalmente nella giungla della Serie A, il giovane Massimi, con umanissimo orgoglio, ha voluto dimostrarsi il re. Bastava molto meno: essere servo del regolamento. La Var impone arbitri nuovi e perciò nuovi devono essere gli strumenti di selezione e di formazione. Scegliere ed educare arbitri dotati del coraggio di smentirsi, in qualsiasi momento della partita, e dell’umiltà per convivere sereni con l’aiuto della tecnologia. Finché gli arbitri si sentiranno poliziotti a rischio pensione per colpa del Var RoboCop, non ci sarà giustizia.
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